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Il sano realismo che piace a Trump e a Bibi

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UNA concezione mercantile della Storia, la stessa che ha fatto capolino nei vari tentativi condotti da Donal Trump di imporre una pace in Medio Oriente, dopo oltre 70 anni di guerre, soltanto prospettando alle parti coinvolte una stagione di “buoni affari”, ha consentito a Israele di stringere accordi di amicizia e cooperazione, coesistenza e normalizzazione, allo scopo di rafforzare la pace, con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, due mini stati satelliti del reame petrolifero per eccellenza, l'Arabia Saudita, che domina la penisola arabica in aperto ed insanabile contrasto con l'Iran. Nonostante, i rapporti tra Emirati Uniti e Bahrain, da un lato e Israele, dall'altro, non abbiano mai avuto a che vedere con un conflitto armato, ma molto, invece, con rapporti d'affari “coiperti”e spregiudicate manovre d'intelligence, tutti i protagonisti di questa vicenda diplomatica, a partire da Trump, architetto degli accordi, e naturalmente i solerti corifei del momento, hanno gridato alla “svolta”, di più al “breacktrrough”, allo sfondamento. Quasi che, dopo le firme e i sorrisi dei monarchi del Golfo e di Netanyahu propinati ai media ubbidienti dagli addetti stampa della Casa Bianca, una nuova stagione debba prossimamente aprirsi in una regione mediorientale dominata da tensioni permanenti e da quel conflitto arabo-Israeliano imperniato attorno alle rivendicazioni nazionali del popolo palestinese, delle quali per convenzione imposta dall'Amministrazione Trump il mondo civilizzato ha cessato di parlare.
In questo precisamente consisterebbe la svolta indotta dagli “accordi di Abramo” (ad un pizzico di religiosità non si rinuncia mai di questi tempi, essendo sponsor e firmatari praticanti di religioni abramitiche, vale a dire monoteiste): nel fatto che la questione palestinese, per quanto ignorata, irrisolta, accantonata, avrebbe cessato di esercitare la sua funzione di freno delle iniziative diplomatiche che avrebbero finora impedito, sulla carta, ad una cospicua parte del mondo arabo di seguire l'esempio di Egitto e Giordania, gli unici due paesi arabi capaci di uscire dallo stato di ostilità con Israele sottoscrivendo trattati di pace (Camp David 1979, l'Egitto; Haravà 1994, il Regno hashemita) con lo Stato ebraico. Giordania ed Egitto si sono poi trasformati in sponsor di quel negoziato di pace tra israeliani e palestinesi, di cui oggi, 27 anni dopo la firma degli accordi di Oslo e le strette di mano fra Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Yasser Arafat e Bill Clinton sul prato della Casa Bianca, nessuno sembra sentire più alcuna nostalgia.
Così neutralizzata la malefica influenza esercitata dalla madre di tutti i conflitti mediorientali, non resta che rendere omaggio al sano realismo di Donald Trump e del genero, Jared Kushner, subitamente dimentichi del ruolo di “honest broker” affidato agli Stati Uniti dalla Comunità Internazionale per appoggiare la strategia di potenza israeliana. Straordinario Kushner, il quale, dopo aver passato oltre tre anni ad elaborare un piano di pace fra israeliani e palestinesi basato sull'annessione da parte d'Israele del 30 per cento di quel che resta della Cisgiordania occupata, che a sua volta rappresenta l'11 per cento delle Palestina storica, così gratificando il suo amico Netanyahu e il partito dei coloni di cui la famiglia Kushner è fervente sostenitrice, dell'ennesimo omaggio da parte della Casa Bianca (dopo il trasferimento dell'ambasciata USA a Gerusalemme, il riconoscimento di Gerusalemme Capitale d'Israele, cosi come delle alture del Golan occupate nella guerra del 1967), Kushner ha colto al balzo la disponibilità di Mohamed bin Zayed, l'uomo forte degli Emirati Arabi Uniti a normalizzare i rapporti con Israele in cambio della rinuncia da parte di Netanyahu a proseguire nel disegno di annessione. In sostanza sia Bibi che il suo potente alleato americano hanno fatto credere una cosa (l'annessione) alla quale, in realtà, erano pronti a rinunciare, in cambio di qualcos'altro, la “normalizzazione”. (E forse, così almeno si dice, di uno squadroone di F35, il super caccia da combattimento che regalerebbe all'UAE quel margine di vantaggio tattico che Netanyahu è molto restio a concedere).
Il che vuol dire che Israele e gli Emirati Arabi Uniti, vero e proprio bancomat dei paesi occidentali desiderosi di offrire i propri know how nei più vasti settori (chiedete a ristoratori re albergstori italiani, per esempio) in cambio di petrodollari, proseguiranno a fare affari nel campo della sicurezza e del controllo delle persone, così come degli armamenti più avanzati, settore in cui lo Stato ebraico vanta non pochi primati, che i paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, riconoscono ormai apertamente e anelano di procacciarsi. In fondo, secondo un'inchiesta approfondita del New York Times, uomini d'affari israeliani avrebbero facilitato l'accesso del candidato Donald Trump e del suo onnipotente genero al tempo in cui The Donald avanzava la sua prima candidatura alla Casa Bianca.
Quanto al Bahrain, un tempo regno da mille e una notte di pescatori di perle, oggi una monarchia retta da una dinastia sunnita, minoritaria, invisa alla maggioranza sciita della popolazione, quella firmata da re Hamad bin Isa al Khalifa è soltanto una dichiarazione congiunta. Il Bahrain ha poco da offrire e quel poco, vale a dire la posizione centrale del piccolo arcipelago baharenita nelle acque del Golfo se l'è preso l'America che a Manama ospita da decenni la Quinta Flotta.
Politicamente, dunque, con gli accordi firmati ieri, i due emirati hanno svolto, di buon grado, il ruolo delle mosche cocchiere che, come nella favola di Fedro avrebbero preso posto sulla testa del mulo saudita, credendo di essere loro, mosche e mulo, a decidere la direzione del convoglio, le cui mosse, invece, sono determinate da altri e più potenti conducenti.
Come la “svolta” sia stata possibile è tutto tranne che un mistero. Nel clima di pragmatismo che prevale nei commenti, ai palestinesi non vengono risparmiate critiche. E' il destino dei deboli e dei perdenti. L'insulto oltre alle ferite. Il dileggio oltre alla sconfitta. Colpa loro. Hanno osato credere che vi potesse essere una giustizia internazionale a riconoscere la fondatezza della loro causa e l'illegittimità dell'occupazione israeliana (che continua tutt'ora, in termini non meno brutali che in passato). Hanno creduto nel negoziato di Pace, pensando che bastasse una stretta di mano senza aggiungere un'eventuale clausola di sbarramento negli accordi di Oslo che bloccasse la colonizzazione dei territori. E infine hanno creduto ad Obama, per ritrovarsi, dopo Obama, con un altro presidente americano che li ha umiliati, privati degli aiuti, destituiti nella loro dignità politica, vedendosi persino chiusa la loro ambasciata a Washington. Trump ha infine deciso, unilateralmente, su alcune questioni cruciali, come Gerusalemme, per dimostrare loro che non contano nulla. E poi dicono che sono stati i palestinesi a rifiutare qualsiasi proposta di accordo.


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